Produzione Compagnia Favola di Mattoni
testo di Danilo Reschigna
regia di Rino Cacciola
con
Valeria Pinori
Sara Elena Rossetti
Rino Cacciola
Raffaele Tamburri
Appunti della regia
La sfida di questo spettacolo può essere sintetizzata da una semplice domanda: può il linguaggio del teatro tradurre la poesia e la complessità dell’animo umano? I diversi stati d’animo, che messi insieme formerebbero una sorta di arcobaleno della psiche, in questo spettacolo vengono rappresentati simbolicamente da quattro personaggi dai colori non certo vivaci: Grigiopetto, il direttore d’orchestra, che esprime ambizione e volontà di migliorarsi, Bianca, la vedova sofferente, che non riesce a superare gli errori del passato, Biancoceleste, il cuoco ottimista, che cerca di realizzarsi attraverso il proprio lavoro, e Nerina, la sposa complessata, che ha paura di crescere e che vive in perenne conflitto con la madre. Questi personaggi, attraverso metaforiche telefonate, interagiscono tra di loro nel tentativo di stringere un qualche legame che li possa aiutare nella loro faticosa ricerca della felicità. Ad accompagnare le sofferte vicende dei personaggi interpretati dagli attori si percepisce in modo abbastanza evidente anche un quinto personaggio che, pur non avendo una vera e propria presenza scenica, mostra ugualmente una sua forza narrativa e importanza drammaturgica. Si tratta della Musica che è presente sin dall’inizio, apparendo legata al personaggio del direttore d’orchestra , ma che solamente nel corso dello spettacolo acquista una sua autonomia, grazie anche all’utilizzo di alcuni frammenti di canzoni che, sostituendosi al testo degli attori, scandiscono lo sviluppo della vicenda. Musica, azioni, parole e…una sedia, simbolo del luogo dove i personaggi cercano di raccogliere e condividere le proprie speranze e desideri. La metafora del telefono, unico mezzo a disposizione per comunicare, mezzo che questo racconto teatrale trasforma in occasioni di conflitto sia visivo che fisico, porterà i personaggi verso una maggiore solitudine e consapevolezza delle proprie paure tanto da spingere ognuno di loro ad affrontare un dialogo con la propria coscienza. Alla fine la difficoltà della comunicazione e il peso delle proprie paure schiaccerà le speranze dei quattro personaggi fino a che, paradossalmente, sarà proprio la rinuncia all’utilizzo della parola che darà loro nuove possibilità di intesa.
Una volta che si riconosce al teatro la possibilità di trasformarsi in uno specchio in cui poter leggere se stessi, attraverso quella lente d’ingrandimento creata dall’enfasi del racconto teatrale, può darsi che uno spettacolo come L’Arcobaleno Spento diventi il ritratto emozionale e psicologico di ognuno di noi, dato che in fondo siamo tutti accumunati dalle stesse paure e aspirazioni e tutti viviamo lo stesso bisogno di condividerle con l’altro.
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